Il Teatro di… Eugenio Barba
Ecco il testo di un’intervista di M. Marino ad Eugenio Barba
Eugenio Barba, il fondatore dell’Odin Teatret, una compagnia che ha segnato il secondo Novecento, si racconta in due libri, Bruciare la casa (Ubulibri) e Prediche dal giardino (l’arboreto di Mondaino), una raccolta di discorsi pronunciati in occasione di conferimenti di lauree ad honorem. Ha presentato Prediche dal giardino al Museo di città di Rimini; a Bologna, partendo da questo volume, tiene una lectio magistralis al Dipartimento di Musica e Spettacolo dell’Università con Marco De Marinis e presenta Bruciare la casa al Teatro Ridotto di Lavino di Mezzo.
Barba, qualche tempo fa parlava dell’Odin come di un fantasma del Novecento. Cosa intendeva?
Un fantasma è un’entità che lascia tracce invisibili che solo pochi vedono e sulle quali pochissimi si orientano per scoprire il proprio cammino.
Cos’è Bruciare la casa? Un libro di memorie, un bilancio, una rivendicazione?
Il fuoco è visto come passione, istinto, forza primordiale, rigore assoluto e tecnica meticolosa. Il libro è il rendiconto di una vita nel mestiere e della lotta contro l’entropia del compiacimento per stimolare la crescita dell’imprevedibile.
Quale molla l’ha spinta a fare teatro agli inizi degli anni 201860?
Il desiderio di non essere trattato come uno “sporco italiano”. Sono emigrato in Norvegia nel 1954 e lavoravo come saldatore. A quell’epoca gli italiani lasciavano il loro paese per guadagnarsi da vivere all’estero, ma erano trattati come pezze da piedi e considerati un popolo di ladri e vigliacchi che avevano usato i lanciafiamme sui civili in Abissinia e attaccato a tradimento la Francia alleandosi con Hitler. Così ho pensato che tra un buon saldatore italiano e un cattivo regista teatrale, la gente sarebbe stata meno razzista verso il cattivo regista teatrale. Questa la mia molla a fare teatro.
Nella prefazione a Prediche dal giardino parla di una carriera dai molti no. Può spiegarcene qualcuno?
Fare spettacoli per un centinaio di persone, rimanere 46 anni in una cittadina di provincia danese di 20.000 abitanti, tutti e venticinque i membri del teatro con la stessa paga, pulirsi da soli i locali di lavoro, iniziare alle 8 di mattina, fare teatro a distanza da tutte le idee, prescrizioni e politiche del mondo del teatro, seguire solo il proprio codice di nobiltà, non preoccuparsi di quello che pensano e scrivono gli altri, essere vicini a gruppi teatrali anche geograficamente lontani e collaborare con loro in progetti che critici e storici troveranno poco interessanti.
Si dichiara insieme artigiano e intellettuale. Cosa vuol dire?
L’artigiano lavora concretamente con un materiale. Nel mio caso, i materiali sono svariati e ben concreti: dallo spazio alle luci di uno spettacolo, dall’orchestrazione delle musiche e dei silenzi, alla corporalità dei dinamismi e delle azioni che illuminano la notte dei corpi. Intellettuale è uno che lavora con la mente, capace di astrarre ed esporre coerentemente queste astrazioni.
A quale dei suoi tanti spettacoli è legato di più?
Al primo, Ornitofilene, del 1965, e all’ultimo, La vita cronica, sul quale sto lavorando ora. Non importa quanti spettacoli si siano fatti nella propria vita. Creare uno spettacolo succede sempre per la prima volta.
Cos’è stato veramente l’Odin Teatret?
Un fantasma.
Qual’è il ruolo della pedagogia nell’arte?
Picasso sosteneva che un pittore deve apprendere a ben disegnare, così può essere libero di creare come vuole.
Come prefigurerebbe il futuro del teatro?
Senza di me. Sono fortunato. Non mi debbo preoccupare.
Come immagina sarà ricordato il suo lavoro tra cento anni?
Come quello di Gustavo Modena tra i giovani di oggi.
Secondo lei, il teatro è ancora in grado di incarnare e interpretare gli immaginari della nostra epoca?
Dipende dal teatro, dal luogo e dalle circostanze. In Cile durante la dittatura di Pinochet e in Perù al tempo dei massacri del Sendero Luminoso e dell’esercito, ho assistito a spettacoli che incarnavano la tragedia della loro epoca. In più gli attori rischiavano la vita. Questo accadeva solo pochi anni fa.
Grazie ad Eugenio Barba